Una ragazza attraversa una città sconosciuta. E’ di una bellezza eterea, quasi incorporea. Così, come intuiamo dalle parole che incrociano le immagini, che incorporea sia anche la sua memoria. La troviamo a cercare strade, ad attraversare ponti, a incrociare cimiteri, a spandere ombre, a gestire incroci e a dondolarsi appesa al cielo.
Anche quando scompare dalle immagini, le didascalie poetiche ci danno la sensazione che sia lì, al nostro fianco, a suggerirci suggestioni o ad evocare dentro il bianco e nero un po’ melanconico la sua nostalgia per un posto che sogna, attraversa, intuisce, ma non ri-conosce.
Ecco, banalmente, il racconto metropolitano di questo progetto, che, a partire dallo sguardo sulle campagne della periferia sud-milanese, si snoda tra le strade milanesi attraverso le mie fotografie, le illustrazioni di Caterina e le didascalie poetiche di Monica, prova a suggerire all’osservatore di cogliere nostalgie, di svelare i colori che non si vedono, di aiutare la protagonista a ritrovare la sua memoria, che forse un po’ è anche la nostra di milanesi, svagati e poco inclini alla poesia. Se poi l’incorporeità fisica della ragazza, la quasi totale assenza di colori (o in alcuni caso l’eccessiva saturazione), le parole che rimandano a emozioni e pensieri senza (apparenti) dettagli investono il nostro osservatore e lo costringono, quasi in un transfert con la protagonista, a fare propria la narrazione, giocandosela tra vissuto personale, immaginazione e immaginario, potremmo avere la sensazione che le lingue che abbiamo usato per narrare, ovvero quelle iconiche delle illustrazioni e delle fotografie e quella verbale delle parole scritte, siano, forse, quelle giuste.
Quando sei anni fa davanti ad un milanesissimo happy hour fa abbiamo provato a imbastire questo folle progetto, ci siamo detti che due avrebbero dovuto essere le cose fondamentali: che i linguaggi, abitualmente maneggiati per professione o per piacere, si incrociassero e contaminassero, mantenendo però ciascuno, la propria identità, senza snaturarsi o diventare un banale sfondo incolore, e che gli stessi ci consentissero di dare forma compiuta alla storia che più o meno consciamente ci girava in testa. Ci siamo riusciti? A voi osservatori, e forse potenziali narratori, spetta l’ardua sentenza. Ma noi in ogni caso possiamo garantirvi che ci siamo divertiti ed emozionati molto.
Ma questa è un’altra storia e la si dovrà raccontare un’altra volta…
Giuseppe Bartorilla